lunedì 12 settembre 2016

La cosa. Parte quinta

Ora, vorrei che questa fosse la parte della storia raccontata meglio. Vorrei che leggendo, voi capiate davvero cosa sono stati i miei 2 mesi di chemioterapia. Il racconto è davvero lungo. Parto dal primo ciclo.

Cosa sapevo prima di iniziare.
I cicli di terapia che avrei dovuto fare sarebbero stati due o tre, in base a come sarei riuscita a reggerli.
Ogni ciclo avrebbe avuto la durata di 3 settimane: durante la prima avrei fatto terapia cinque giorni di fila per circa quattro ore al giorno, durante le due settimane successive un solo giorno per un'ora scarsa.
I farmaci chemioterapici sarebbero stati 3 (Cisplatino, Etoposide e Bleomicina).
Avrei perso i capelli.
Avrei potuto avere tutta un'altra lunghissima serie di effetti collaterali: nausea, vomito, vene che "spariscono", abbassamento dei globuli bianchi e delle piastrine, stanchezza, dolori muscolari e ossei e molti altri che ora nemmeno ricordo più.
Avrei avuto molti farmaci da prendere costantemente o all'occorrenza.

Primo ciclo (2 maggio - 17 maggio)
Il mio spazio consiste in 3 metri quadrati all'incirca, con me una poltrona grigia gran comoda, un ago in vena e una grande bottiglia d’acqua da sorseggiare di continuo.
Non mi posso proprio lamentare dell’ambiente. Qui è tranquillo, le infermiere sono brave, con un giusto grado di sensibilità.
Cosa non mi piace? Farmi bucare. Durante i primi due giorni penso che questo sia il momento peggiore di tutti, più di quando ti iniettano sostanze fredde o “pizzichine”, più di quando ti iniettano i farmaci chemioterapici. Tutto perché io le vene le ho brutte, piccole, poco visibili. Ho le vene brutte e devo farmene una ragione. Nei primi due giorni conto già 4 buchi. A questo punto la via percorribile più auspicata è quella di installare un piccolo catetere venoso centrale grazie al quale non sarà più necessario bucarmi le braccia: il port-a-cath. Mi mettono in lista d'attesa e nel frattempo si prosegue con le braccia e le mani.
I primi due giorni passano, vado anche a fare zumba, mi taglio i capelli e sì mi sento un po' più debole e assonnata del solito, ma insomma, se è tutto qui questa chemioterapia sarà una passeggiata.
Il terzo giorno vado in macchina da sola a trovare le mie colleghe a scuola. Un piccolo zombie assonnato ma che ancora ce la fa. Forse inizio ad avere un po' di mal di stomaco, non ricordo con esattezza.

E poi? Poi arriva giovedì e giovedì inizia l'inferno. In ospedale scalpito, le quattro ore iniziano a farsi impegnative, mi faccio mettere una coperta perché inizio anche a tremare, a casa inizia la nausea, nonostante gli antiemetici. Vomito. Le forze stanno a 0, la voglia di mangiare sotto le scarpe. Mi sposto a dormire nel lettone con la mamma.
Venerdì in ospedale mi tocca la stanza lilla.
Piccola parentesi.
A Lecco i pazienti oncologici che devono fare la chemio, vengono suddivisi in 2 gruppi: soli e lune.
Ogni giorno ogni gruppo viene sistemato in un locale - quello più grande ha i piccoli vani con le tende dove ti può sempre avere vicino un amico/parente, l'altro è la cosiddetta stanza lilla dove si sta tutti insieme senza divisori e non è permesso avere accompagnatori se non per qualche minuto.
Ecco, mi tocca la stanza lilla. Inizio mentalmente a disperarmi perché, benché la presenza di mia madre non cambi il mio stato fisico durante la terapia, la sua presenza mi rassicura psicologicamente. E vi assicuro che quando si sta così male, avere qualcuno che sia lì con te è fondamentale.
Fortunatamente la Robi, una delle mie infermiere, legge il malessere che ho stampato in faccia e mi fa accomodare nell'unico letto, che si trova in uno spazio attiguo alla stanza lilla, dove mia mamma può restare tutto il tempo.
Durante la terapia tremo, tremo tantissimo, forse ho freddo, ma la sensazione che ho non è proprio quella. In ogni caso mi faccio dare un lenzuolo e mi copro. Tenere gli occhi aperti è un'impresa titanica, mi arrendo e ascolto la musica con gli auricolari. Provare a dormire nel frattempo è l'unica scelta saggia che sembra esserci.
Viene a farmi visita una delle dottoresse, forse mi aggiungono una dose di antiemetico, non ricordo bene. Dice che per il prossimo ciclo valuteremo se ricoverami invece che fare il day hospital, visto come sto reagendo alla terapia. Non bene.
Io non vedo l'ora che tutte quelle goccioline finiscano di cadere e che i sacchetti con i farmaci si svuotino. Non vedo l'ora di tornarmene a casa, nel letto. Non vedo l'ora che il tempo passi.
Ma il tempo sembra aver preso un altro ritmo. Non passa, non passa mai.
Il mio cellulare squilla spesso, tempestato di messaggi da amici cari e da persone che non vedo e/o sento da una vita, ma le forze per rispondere non ci sono.
A casa esistono solo il divano e il letto. Più il letto.
Un letto che mi accoglie stanca e senza energie, che mi vede rigirarmi spesso, addormentarmi e svegliarmi ad ogni ora del giorno e della notte. Io voglio solo dormire, per non sentire niente. Voglio solo dormire e vedere che il tempo è passato nel frattempo.
Mangiare e bere è una sfida: quando finisco una tazzina da caffè riempita a metà di gelato si festeggia. L'unica cosa che ho minimamente voglia di sorseggiare è il succo all'albicocca.
Il tempo non passa.
Il tempo non passa.
Il tempo non passa.
Sembra di non star vivendo veramente.
Non sento un unico dolore acuto, come quello di un taglio o di un forte mal di pancia.
Il malessere è distribuito in tutto il corpo, non è acuto ma è costante, di quella costanza che dà sfinimento.
Penso che non ce la farò a resistere, penso che sono solo al primo ciclo ma che mi basta e avanza, penso che non può esiste un malessere più grande. Penso - e mi spaventa avere oggi la consapevolezza di aver avuto questo pensiero - che ora capisco chi chiede l'eutanasia, perché vi assicuro che vivere sentendo la fatica di respirare e persino la fatica di stare seduti sul divano, non è vivere, è un sopravvivere malvagio.
E siamo a sabato, e sabato non è tanto diverso da venerdì. C'è fatica a fare tutto. La bilancia segna 4 kg in meno, non riesco nemmeno a guardare la televisione: troppo impegnativo anche quello. Il senso di estraneità dalla vita persiste.
Mi sveglio domenica mattina e sembra di stare meglio. Arriva la mia Rosy, l'infermiera del reparto che conoscevo già perché abita nella mia stessa frazione, mi fa la puntura di cortisone e quella di plasil. Mezz'oretta dopo sfioro il collasso, respiro a fatica, il battito è accelerato, di riuscire ad alzarmi dal letto non se ne parla. Mia mamma richiama la Rosy e sente il medico di famiglia che viene a visitarmi. Mettendo insieme le informazioni, l'unica ipotesi che potrebbe spiegare tutto che io reagisca male al plasil. Quella sera e il giorno successivo evitiamo quindi di iniettarmelo ulteriormente ed effettivamente episodi come quello di domenica mattina non si ripresentano.
Domenica pomeriggio riesco addirittura a guardarmi un paio di film in tv e a mangiare un toast intero.
Martedì vado a fare il richiamo settimanale di bleomicina: una passeggiata in confronto della settimana appena passata.
Piano piano si inizia a risalire dal baratro e mi convinco che posso tornare a scuola. Giovedì mattina mi sveglio decisa ed entusiasta, faccio le scale per andare a vestirmi ma arrivata in cima devo assolutamente sdraiarmi sul letto per non svenire. Un simpatico calo di pressione ha deciso di farmi visita. Aspetto mezz'oretta, convinta che la pressione non possa rimanere bassa a lungo e invece no, devo rimettere in tasca la mia idea di uscire e passo tutta la giornata a bere Gatorade all'arancia rossa. All'alba delle 19:00 finalmente la massima decide di superare la barriera del 100 e festeggio uscendo a mangiare una pizza con la mia migliore amica.
Il giorno successivo non mi ferma nessuno, finalmente vado a scuola a sfoggiare davanti ai miei alunni il mio nuovo taglio di capelli, una bambina mi dice che così sembro una cantante famosa. Vi amo!
La terza settimana del primo ciclo inizia in modo traumatico: è arrivato il mio turno di mettere il port-a-cath. L'attesa fuori dalla sala è snervante. Di fronte a me si siede una coppia. Lui è lì per rimuovere il port. Non ho chiesto nulla, eppure decidono di parlarmi. Lei mi dice che il marito sono cinque anni che ha il piccolo catetere venoso, mi dice che non dà fastidi, che non ci si accorge nemmeno di averlo. Io nella mia testa penso solo ad un gigantesco vaffanculo che vorrei urlarle in faccia: io non sono un uomo di 50 anni sposato, sono una ragazza di 27 single e con l'estate alle porte. Ma cosa parla a fare? Lei che non ha un serbatoio di titanio che le sporge dal petto, cosa vuole saperne?
Ma, ancor peggio della conversazione in sala d'attesa, c'è l'operazione. Con degli aghi lunghissimi mi fanno l'anestesia locale. Brucia. La testa è bloccata girata verso sinistra con sopra un telo che mi impedisce di vedere, per fortuna. Le orecchie però ci sentono benissimo e tra un "tampona il sangue", "bisturi" e "sto facendo un po' fatica perché hai i tessuti muscolari giovani e forti", passo una mezzora che definire traumatica è poco. Le lacrime non smettono un attimo di scorrere, ho paura. Non vedo l'ora che sia tutto finito, voglio andarmene. Quando anche l'ultimo punto è messo, mi staccano da tutto e posso finalmente uscire da quella stanza delle torture. Passo le ore successive in reparto in osservazione e poi finalmente a casa dove piano piano il dolore inizia a farsi sentire. Mi rimpinzo di ghiaccio e alla fine cedo anche ad una tachipirina.
E siamo a martedì 17, l'ultimo giorno del primo ciclo. Mi somministrano per la prima volta la terapia dal port. Effettivamente rispetto alla caccia alle vene è di una gran comodità.

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