giovedì 28 dicembre 2017

I momenti in cui si sceglie chi si vuole essere

Regard intérieur - Anne Marie Zylberman
Oggi mi è arrivata una raccomandata.
Dal centro di Medicina della Riproduzione Biogenesi della Clinica dove ho crioconservato gli ovociti.
E per la terza volta mi ritrovo davanti ad una scelta.
La prima volta è stato due anni fa, quando dovevo decidere di fare o meno l'operazione di crioconservazione.
La seconda volta è stata l'anno scorso, quando mi è arrivata per la prima volta questa raccomandata.
E oggi siamo alla scelta numero 3.
Cosa devo scegliere? Se continuare o rinunciare a conservare gli ovuli.
Forse da fuori la scelta è facile: che problema c'è? Nel dubbio, li si tiene e male che vada sono lì...
Ma non è così. Non è così semplice.
Vorrei tralasciare la questione del costo, ma proprio non ce la faccio: anche quella conta.
100 euro all'anno per tenere 3 ovuli congelati.
Ne spendo 140 ogni tre mesi per degli esami del sangue che non passa la mutua. Non è il prezzo in sé, non è che io non abbia questi 100 euro. Ma non sono neanche più "solo" 100 euro, perché il tempo passa e gli anni si accumulano più velocemente di quello che crediamo.
Forse direte che allora a maggior ragione, perché non tenerli? Più si va avanti e più è probabile che tu ne avrai bisogno...
Ed ecco che è qui che il discorso va ben oltre i soldi. Sul bisogno.
E la domanda forte è questa: io ho davvero BISOGNO di questa sorta di paracadute che non è nemmeno detto che mi serva o, peggio, che funzioni? E, soprattutto, io ho davvero BISOGNO di avere un bambino?
L'associazione donna-madre è naturale, questo non c'è dubbio. E il problema non è quello.
L'associazione a tutti costi donna-madre invece sì, è un problema. Mamma a tutti i costi è un problema.
Per me, ovviamente.
Credo che una donna possa essere felice anche senza figli, che li abbia desiderati o meno.
Credo che io possa essere felice anche senza figli. Come credo che possa essere felice avendone.
Io forse sono anche in una situazione particolare, perché mi sono ritrovata su questo sentiero senza esserne consapevole, senza averlo scelto, senza saperne nulla: mi ci hanno catapultato ed ora sono qui, con dubbi più grandi di me; e poi perché diventare madre non è una cosa che posso fare ora, anche volendo.
Chi si trova a crioconservare gli ovociti non per correre ai ripari per un eventuale futuro, ma come unica possibilità, sicuramente vede le cose in modo diverso.
Quindi esco dalla mia situazione, per guardare a più ampio raggio.
Io non ho paura di chi si ama e, trovando difficoltà biologiche, incorre nella medicina.
Io ho paura dell'egoismo.
Ho paura di quell'egoismo da "quando voglio io", "quando sarà comodo".
Ho paura di cadere in quell'egoismo.
Ho paura anche degli investimenti a perdere.
E, allo stesso tempo, come ho sempre fatto, soprattutto con la malattia, ho sempre creduto molto.
Non che vada tutto bene.
Ma che vada tutto come deve andare.
Credo che la forza della felicità stia nell'affrontare a braccia aperte ciò che non si può scegliere.
E quindi io rinuncio ai miei ovociti.
Rinuncio, ma non ho perso nulla.
110 - Anne Marie Zylberman

sabato 21 ottobre 2017

Le lacrime belle

Oggi ho avuto un flashback.
Uno di quelli da film.
Stavo andando al centro commerciale perché era da alcuni giorni che sentivo la voglia irrefrenabile di comprare qualcosa per me.
Ho sbagliato strada, prendendo l'itinerario meno diretto.
Ho fatto una strada che in realtà ho fatto un milione di volte in questi due anni.
Eppure, oggi, quella strada mi ha spiazzato più di tutte le altre volte.

Sono passata di fronte ad una clinica, ho percorso un tratto di strada affiancato da alcuni parcheggi.
Ed ecco: il parcheggio in cui avevo lasciato la macchina prima di entrare in quella clinica nel luglio del 2015 mi ha frastornato il cervello. Lì è dove ho fatto la prima ecografia e quel posto auto è stato il punto esatto in cui ho pianto per la prima volta per "colpa" della Cosa.
Ero sola, e sono contenta che sia stato così.
Ero confusa.
Lì, in realtà non sapevo che si trattasse della Cosa. O meglio, la Cosa era appena diventata la Cosa, non era ancora un tumore. Ma forse si.
In ogni caso lì avevo saputo che, tumore o non tumore, il mio ovaio sinistro sarebbe stato da rimuovere.
Ricordo di essere stata seduta sul sedile della macchina immobile per parecchio tempo.
Ricordo di aver chiamato Giulia, la mia migliore amica.
E ricordo che ad un certo punto mi sono costretta ad accendere il motore per tornare a casa.

Perché racconto tutto questo ora? Non lo so.
Forse perché questi piccoli dettagli di storia fino ad ora sono rimasti solo miei, sovrastati - nelle "precedenti puntate" da aspetti più dirompenti, dalla necessità di far scorrere il racconto.
Ora, però, il racconto è finito (o nella peggiore delle ipotesi, è in stand-by) e le maglie si allargano per fare spazio ai piccoli momenti, quelli poveri di sostanza, ma ricchi di emozioni.

Oggi in macchina ho pianto, rivenendomi in quel parcheggio. Ma sono state lacrime belle. Io le chiamo così.
Esistono e sono le più incredibili di tutte le lacrime. Le lacrime di quando pensi ai pianti dolorosi che sono passati e ti hanno innaffiato per permetterti di crescere e di diventare la persona che sei oggi.

giovedì 15 giugno 2017

ASPETTO DOMANI QUASI COME ASPETTAVO BABBO NATALE

Aspetto domani.
Lo aspetto tepidante e impaziente.
Come il Natale.
Domani mi rimuovono il port-a-cath!
Lo aspetto anche un po' tremante, perché il ricordo del posizionamento è ancora vivido nella mia memoria. E non è un bel ricordo!
Succede così quando entrano in gioco le emozioni: la mente improvvisamente si allarga per dare più spazio e più tempo ai ricordi.
Ho già intenzione di chiedere un ansiolitico, d'altronde è previsto anche nel foglio informativo...
Ma come per il Natale, dove si ha anche un po' paura che Babbo si possa dimenticare di noi o che ci abbia messo nella lista dei cattivi, l'eccitazione e l'impazienza sono più forti!
Sono pronta!

martedì 2 maggio 2017

Un anno.

Un anno.
365 giorni.
Questo è il tempo che è trascorso dalla prima infusione.
Sì, così si chiama. Come quando prepari il tè alle quattro del pomeriggio.
Ma ciò che viene infuso non sono dense e profumate foglie aromatiche. È veleno, e finisce dritto dritto nel tuo corpo.
Il 2 maggio 2016, a quest’ora, stavo terminando la mia prima seduta di chemioterapia.
La ricordo bene: i due tentativi per prendere una vena buona; il quasi svenimento nei primi 15 minuti, confessato solo settimane dopo alla mia mamma per non farla spaventare; la sensazione mista di paura e spavalderia.
Ricordo il desiderio di scrivere e - il mio primo giorno - lo avevo anche fatto, quando credevo che le forze mi sarebbero bastate anche nei giorni successivi, quando nel pomeriggio solo andata a fare zumba, come se nulla fosse.
Un anno.
Il calendario non permette di dimenticare, ma anzi, ci invita a fare bilanci, a ricordare avvenimenti, a festeggiare anniversari. E questo mi piace. Perché lo trovo importante.
Io oggi ricordo, commemoro l’inizio di una lotta di cui vado fiera, una lotta che mi ha tolto alcune cose, ma che me ne ha donate molte di più.
Stamattina Facebook e il suo “accadde oggi” mi ha permesso di rileggere i più di 80 commenti che amici e conoscenti mi hanno lasciato sotto alla foto dove annunciavo l’inizio della terapia. Beh, non ho potuto che piangere sul cuscino per tutto quell’affetto e, più ancora, per tutta la stima che trasudava da quelle parole; poche, a volte quasi scontate, ma che hanno un valore inestimabile per chi in quel momento ne ha bisogno.
A un anno di distanza non posso che essere felice di dove sono ora. Domani vado a firmare il consenso per togliere il port-a-cath dal mio petto. La lotta non è mai finita, perché la vita stessa è una lotta, in tutte le sue sfaccettature; ma quella battaglia sì, quella battaglia è terminata e io ho vinto.

martedì 28 febbraio 2017

Il sopravvivere malvagio e la morte

Oggi ho letto molti post su Facebook, sulla storia di Fabo.
Ho letto tante opinioni: ho letto tanta rabbia ed empatia ma anche tante parole facili, sentenze sputate tra i denti, accuse, ho letto grandi paroloni e trascendentali teorie politiche, religiose o pseudo-tali.
Io mi son sentita toccata da questa storia.
Nel mio piccolo ho riflettuto molto sull'argomento, e sono arrivata alla conclusione che io non sto con nessuno, se non con me stessa e con quanto ho maturato dalla mia esperienza, fatta di tanti pezzi, tanti aspetti.
Io credo che non esista una risposta facile, ma anche che è nostro dovere cercarla questa risposta, negoziarla, metterla in gioco, un gioco bello però, fatto di opinioni ragionate, di parole cercate con delicatezza e rispetto.
Io credo che sia giusto che, se ben pensata, se ben riflettuta, l’eutanasia sia una scelta possibile, da riservare a se stessi.
Io credo che il sopravvivere malvagio non possa essere una vita a tutti i costi. A volte è più vita la morte, perché la morte a volte è più azione della vita.
È un arrendersi? Forse… e anche se lo fosse, chi lo ha mai detto che nella vita non ci si possa arrendere ogni tanto? Che non possa essere giusto farlo?
Io credo – perché l’ho imparato – che a volte arrendersi è la cosa più giusta da fare. Come quando ho lasciato l’università. E non perché quell'università fosse brutta o non valesse, ma semplicemente non era quella la mia strada. E se volete saperlo, è stata la scelta migliore della mia vita fino ad oggi. E, aggiungo, nemmeno tra le più facili da prendere, perché ci vuol coraggio per cambiare le cose.
Ecco, questo per dire che io credo anche nell’arrendersi, ogni tanto, che non è codardia.
Viviamo in un mondo dove morte, malattie e sconfitte devono starci il più lontano possibile, bisogna parlarne a sottovoce. E invece no. Di queste cose bisogna urlare. Perché non sono queste le cose di cui aver paura.
È del vivere a tutti i costi che dovremmo aver paura. È del voler cercare la perfezione, la vittoria su tutto e tutti.
Io credo che dovremmo imparare ad accettare di più la morte nelle nostre vite, anche quelle scelte.
E torno al mio inizio, alla storia di Fabo, di cui io in realtà so ben poco, ma di cui ho intuito il sopravvivere malvagio (no, non c’è un’altra espressione per definirlo meglio). E vi chiedo, voi quanto ne sapete? Quando sapete davvero del sopravvivere malvagio?
Io ne so davvero poco, ma quel poco lo so. Quel poco che mi basta per capire Fabo e la sua scelta.
Ed io immagino che non sia stata solo una questione del non poter più vivere la vita di prima. L’uomo è biologicamente preparato ad adattarsi al cambiamento.
Io credo che non sia il ricordo di ciò che eravamo a portare ad una scelta così estrema, ma è il non riconoscersi nell’immagine dell’oggi, di un oggi che non è un giorno, una settimana, un mese, ma sono anni.
Anni che trascorrono rallentati in modo estremo, che ti mettono a contatto con la tua voce 24 ore su 24, dove ogni singolo gesto scontato è rilevante e dove scegliere è un privilegio che forse non rivedrai mai più.
Ed ecco che è qui, è questo il punto in cui mi convinco. Sulla possibilità, anzi il diritto di scegliere per se stessi. 
Io, che credo fortemente nelle scelte, quelle personali, quelle che fanno di te la persona che vuoi essere, quelle che sono uniche portatrici di felicità.
Quando non si può più scegliere si muore, lentamente. E questa è sì la morte di cui dobbiamo aver paura, perché è quel tipo di morte che ci rende sconosciuti persino a noi stessi.
Le lacrime possono essere anche molto più belle e soddisfacenti di un sorriso, a volte.

domenica 12 febbraio 2017

La Cosa. Epilogo

La storia è finita.
Potrei non aggiungere nulla, ma devo.
Devo aggiungere, devo dire, devo comunicare.
Devo dire grazie. A chi?
Non spaventatevi.
Io oggi, devo dire grazie a La Cosa.
Devo dire grazie alla mia malattia, al mio tumore maligno, al mio cancro dal nome strano.
Devo dire grazie a quella prima cellula che è impazzita nel mio ovaio sinistro.
E' un po' da matti, vero?
Non ne dubito.
Ma, forse, io un po' matta lo sono sempre stata, e quindi è del tutto normale.
Voi penserete che esagero, che mi sto sforzando, che è una cosa che ho elaborato ora, a distanza di tempo.
E invece no, dovete credermi. Il mio grazie non è retorico, non è a posteriori.
Questo post è nella mia mente già da un sacco di mesi.
Questo grazie è già nella mia mente da un sacco di mesi.
Non è un modo di andare avanti, guardando da lontano, non è un modo di scavalcare il muro. Io questo l'ho già fatto.
Questo post non è per me. Io so già quanto sono grata alla mia storia.
Questo post è per voi, e io mi auguro che voi ci crediate, perché non sprecherei parole se non sapessi quanto sia importante.
Ho sentito molti raccontare che la malattia li ha cambiati.
Beh, io invece dico grazie al mio tumore, perché non mi ha cambiato affatto.
Il mio tumore, La Cosa, mi ha "solo" permesso di avere maggior consapevolezza di me.
Non mi ha reso più forte di ciò che ero, ma mi dato l'occasione di mostrare al mondo la forza che io ho sempre saputo di possedere.
Avrebbe potuto farmi sentire impotente, e - lo ammetto - in qualche frangente lo ha fatto, ma mi ha fatto sentire soprattutto padrona della mia vita.
Il tumore mi ha dato l'occasione di essere irreparabilmente vera. Irreparabilmente Silvia.
La Silvia di cui vado fiera, anche quando diventa intollerante e manda a quel paese la gente.
Io, grazie al mio tumore, mi piaccio ancor più di quanto non mi piacessi prima.
E come si può non ringraziare per questo?
Io che credo fortemente nella volontà, nel potere delle scelte.
No, io non tornerei mai indietro.
Se qualcuno volesse prendersi la malattia al posto mio, gli direi di non provarci neanche, di non togliermi per nessun motivo al mondo questo grande dono che ho ricevuto.
Sofferenza annessa.
Dobbiamo imparare ad avere un po' meno paura, a fidarci di noi stessi, a vivere le nostre emozioni, a sentirci fortunati, dobbiamo imparare che non è vita senza sfide, che bisogna lasciare andare qualcosa per poter ricevere altro.
Dobbiamo gioire quando ci sentiamo in bilico e percepiamo la contraddizione dentro di noi. Perché quelli sono i momenti in cui si sceglie chi si vuole essere.
Qualcuno ha detto: "Più grande è la lotta, più glorioso è il trionfo". Ed è maledettamente vero.

lunedì 2 gennaio 2017

La Cosa. Parte settima

Cerchiamo di finire la storia.
A settembre sono stata operata di nuovo: laparoscopia di sorveglianza. Non starò a ripetere cosa succede quando ti devono operare, l'iter è sempre lo stesso, il reparto pure, il chirurgo anche.
Tre tagli, tanta aria nella pancia e una serie di biopsie. La novità di settembre? Rullo di tamburi: niente vomito, niente di niente!
Un mese dopo scopriamo che alcune delle biopsie sono risultate positive. Ho ancora delle cellule malate dentro al mio corpo. Cosa si deve fare adesso?
Adesso bisogna chiedere aiuto a chi ne sa di più. Il primario di Lecco non propone alcuna terapia, ma non sa che tipo di follow-up sia meglio fare.
Eccoci quindi a pagare 300 euro per un consulto all'Istituto Europeo Oncologico di Milano. Ora, a distanza di mesi, raccontarlo con poche parole è semplice, ma quei giorni non sono stati semplici per niente. Trecento euro non sono 20 cent che trovi in terra passeggiando per strada. Continuo a non considerare giusto che, per sapere come proseguire le mie cure, io debba pagare qualcuno 300 euro.
300 euro per leggere pezzi di una cartella clinica.
300 euro per scrivere quattro righe su un foglio.
300 euro per qualcosa che avrei dovuto avere gratis nell'ospedale a 10 minuti da casa.
300 euro che sono costati tensioni in famiglia.
Le malattie a volte ci tolgono il tempo e il diritto di scegliere. E questa è una cosa che non riesco ad accettare di buon grado. Più di sapere di avere ancora cellule tumorali.
Fortunatamente la dottoressa che mi visita al IEO si dimostra competente. Esco dalla sua stanza con un programma chiaro e scandito per monitorare l'eventuale crescita della malattia: ogni 6 mesi dovrò fare una risonanza magnetica, ogni 3/4 mesi ecografia ed esami del sangue per controllare i livelli di Inibina B, ormone anti-mulleriano e CA125, ad ogni ciclo mestruale 15 pillole di progesterone.
Magari più dilatate, ma le visite e i controlli dovrò farli per tutta la vita perché - ve lo ricordate vero? - il mio tumore è tutto particolare e ci sono stati casi in cui si è ripresentato anche dopo vent'anni.
Ma, se devo essere sincera, questo non mi spaventa.
Neanche i primi controlli credo che mi spaventino perché io mi sento forte, anche se so di avere ancora briciole di malattia dentro di me. Mi sento forte perché l'essere malati non è un'etichetta che ci si mette addosso e lo si è o non lo si è.
Io malata forse lo sono, ma non mi ci sento. Credo di non essermelo mai sentito fino in fondo. Credo che dipenda da che idea abbiamo della malattia.
Quindi no, per il mio modo di vedere, io non sono malata. Non più di chi ha un raffreddore stagionale, quanto meno.